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Sunday, 28 April 2024
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                          Che cosa resta dell'Antico Testamento 

 

 

L'immagine dell'ammasso di cocci a cui si riduce il cristianesimo se ci si limita a considerare quanto di esso è presente - o almeno prefigurato - nell'AT ne suggerisce un'altra, atta a descrivere quel che la Chiesa ha fatto e fa dell'enorme deposito veterotestamentario. È l'immagine di un cimitero di automobili, da cui è possibile recuperare molti pezzi ancora pienamente utilizzabili: un volante, una ruota, un sedile, un paio di fari, uno specchietto ...

La Chiesa per secoli e secoli ha fatto (e continua a fare, sia pure con sempre minor convinzione) un'operazione assai simile: ha recuperato e valorizzato tutto quanto del VT si poteva in qualche modo riutilizzare, presentandolo naturalmente (e per lo più, occorre dirlo, in buona fede) come materiale appartenente alla “preparazione”, al “preannunzio” della Buona Novella portata poi da Cristo.

 

Premesso che il sessanta o settanta per cento dell’insieme dei testi veterotestamentari è di fatto lettera morta, essendo accostato pressoché esclusivamente dagli specialisti o dal lettore curioso di antiche storie intriganti e magari piccanti (la situazione è in parte diversa nel mondo protestante, soprattutto nordamericano), noi qui non faremo un inventario simile a quello che abbiamo fatto nel capitolo precedente per mostrare le radicali novità del cristianesimo rispetto al giudaismo. Dovremmo fermare l’attenzione su una congerie di elementi minuti e poco significativi, quali sono appunto le parti d’automobile sottratte alla rottamazione delle quali abbiamo parlato.

Ci limitiamo pertanto a individuare alcuni filoni, alcune tematiche che oggettivamente si prestano ad essere riprese e ripresentate al fedele perché per loro natura non sono specificamente giudaiche ed estranee alla prospettiva cristiana.

 

1)  In primo luogo troviamo ovviamente tutti quei testi profetici che, alludendo più o meno apertamente alla venuta di un Messia, vengono etichettati come “profezie messianiche”.

 

Vanno però fatte alcune importanti precisazioni:

 

a) molte di tali asserite profezie sono tali solo in virtù di un’interpretazione viziata da indiscutibili forzature;

b) tali testi, anche se si usano i criteri più larghi per individuarli, costituiscono una parte infinitesimale della Bibbia ebraica;

c) in ogni caso, non si deve affatto pensare che i libri dei profeti - maggiori e minori - siano prevalentemente dedicati al preannunzio del Messia: raccontano per lo più frammenti di storia del popolo ebraico e contengono innumerevoli promesse di massacri che il Signore compirà nei confronti di vari popoli confinanti o contro gli stessi Israele e Giuda, colpevoli di esser venuti meno ai propri doveri verso il loro Dio.

Anche le profezie “escatologiche”, che presentano i popoli del mondo riuniti ad adorare l’unico Dio, si pongono, come già si è accennato, fuori della prospettiva cristiana, poiché hanno come sede Gerusalemme e come protagonista il popolo ebraico.

 

Per finire, va ribadito che le supposte profezie (compresa quella del “servo sofferente” di Is 52-53, su cui qui non ci soffermiamo) si riferiscono alla venuta di un uomo, non del Figlio del Dio trinitario.

 

2)  In generale, è suscettibile di recupero e riutilizzo in chiave cristiana tutto quel che si riferisce alla concezione di un dio personale, e sarebbe quindi in via di principio compatibile col credo di qualunque religione teistica.

 

Va sottolineato che, se una tale concezione è sempre, per forza di cose, inevitabilmente antropomorfica (in quanto Dio dialoga e interagisce con l’uomo, ponendosi al suo stesso livello), quella veterotestamentaria è antropomorfica al massimo grado.

Dio passeggia nel giardino dell’Eden, scende per vedere da vicino che cosa stan combinando gli uomini a Babele, si presenta ad Abramo sotto l’aspetto di tre angeli … Soprattutto mostra di provare sentimenti umani, quali il pentimento; e in particolare ira e furore, ai quali proclama egli stesso di dover assolutamente dare sfogo. 

 

S’intende che, fra i testi che rispondono al requisito qui indicato, un posto di assoluto rilievo lo occupano i Salmi: preghiere di supplica, di ringraziamento o di lode da parte del fedele che sente profondamente il bisogno di parlare con Dio, nella certezza di essere ascoltato. Per citare un esempio famoso: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio” (Sal 42,2).

È chiaro che per la comunità primitiva (si ricordi la conclusione del Vangelo di Luca: “e stavano sempre nel Tempio lodando Dio”) i Salmi costituivano un corpus di preghiere imponente e di grandissima tradizione - nonché in buona parte ancora “fruibili”, per quel che si è or ora detto -, mentre le nuove preghiere non esistevano ancora: praticamente vi era solo il Padrenostro. Logico quindi che i nuovi credenti li abbiano entusiasticamente adottati, inaugurando una pratica destinata a durare nel tempo.

Nel corso dei secoli, poi, specie a partire dalla Riforma, il Salterio si è arricchito dell’accompagnamento della musica, e all’arricchimento hanno contribuito, tra gli altri, geni quali Palestrina, Bach, Mozart.    

 

Ma occorre fare alcune importanti osservazioni, che ridimensionano notevolmente la “valenza cristiana” dei Salmi.

In primo luogo, risulta evidente a colpo d’occhio la loro “alterità” rispetto alle preghiere autenticamente cristiane quando si considera che essi non presuppongono premi o castighi oltremondani per l’anima.

Mancando la prospettiva escatologica, tutto è incentrato sulla richiesta di grazie temporali, riguardanti questa vita. In particolare, la giustizia che l’orante chiede a Dio, proclamato suo unico rifugio e sostegno, consiste in un risarcimento dei danni subiti per l’asserita malvagità del prossimo. Si arriva addirittura a ricordare a Yahweh che non gli conviene lasciar morire il suo fedele, il quale una volta finito nello sheol non potrebbe più lodarlo. 

 

Già questa considerazione configura la presenza di due visioni religiose profondamente diverse. Ma la dissonanza diviene ancora più acuta se si pensa che, a parte i testi che esprimono un vivo senso del peccato (e tra cui spiccano i cosiddetti “salmi penitenziali”, comprendenti il famoso Miserere), in molti casi si può addirittura parlare di una prospettiva egocentrica, per non dire decisamente egoistica: il sedicente “giusto” e sedicente perseguitato chiede che i suoi persecutori (presentati per lo più come cani, tori, bufali o leoni furiosi) vengano annientati, o comunque esemplarmente puniti. È questo il caso dei cosiddetti “salmi di maledizione”, o di vendetta, che non è improprio definire senz’altro anticristiani.

Un esempio famoso di invettiva pronunciata a nome del popolo tutto è dato dal salmo 137: “Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra”.

 

Negli ultimi tempi la Chiesa ha dovuto prendere atto della vanità di ogni tentativo di vedere in tali testi semplicemente una indignata denuncia del “male”, per così dire metafisicamente considerato. E ha dovuto decidersi alla censura, togliendo dall’uso liturgico singoli versetti o interi componimenti; tale intervento viene per lo più definito “purificazione”. 

 

  3)   Recuperabile e valorizzabile in chiave cristiana è buona parte dei numerosi testi sapienziali, di contenuto gnomico, esprimenti cioè   

considerazioni più o meno profonde su vari aspetti della vita, e in

particolare sulla precarietà della condizione umana; in tale gruppo,

comprendente tra gli altri il libro dei Proverbi e i deuterocanonici Siracide

e Sapienza, vanno rubricati anche non pochi salmi (famose ad esempio

le massime “Ogni uomo è inganno”[115] e “Gli anni della nostra vita

sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica,

dolore: passano presto e noi ci dileguiamo [89]).   

 

Ma si tratta in genere di testi di valenza universale, per lo più simili a tanti altri reperibili in religioni e culture diverse (ad esempio nel buddismo). Sono perciò assai poco qualificanti in senso cristiano.

E opere come Qoelet e il libro di Giobbe, tanto spesso citate e discusse, hanno con l’ortodossia cristiana un rapporto decisamente conflittuale, tanto da richiedere di regola l’impegno massiccio dell’esegesi devota.

 

4)  Il racconto della creazione. Si tratta di un elemento che figurerebbe bene in qualsiasi scrittura sacra di religione monoteistica, in quanto mito eziologico che mostra all’opera il Dio onnipotente. E nel NT non vi è nulla che lo contraddica circa le modalità della creazione.

Notevole - e sfruttatissismo dalla teologia e dalla catechesi - il particolare del “far l’uomo a propria immagine e somiglianza”, che non è se non la versione teologica del “far Dio a propria immagine e somiglianza”, ossia della creazione, da parte dell’uomo, di un Dio personale.

Naturalmente, accanto al racconto della creazione viene conservato e sfruttato sino alla noia, per non dir altro, il racconto della caduta dei progenitori, sul quale (enfatizzato e stravolto) poggia la tesi paolino-agostiniana del peccato originale.    

 

5)  Il Decalogo. Qui la consonanza è quasi assoluta. Ma anche in questo caso vanno fatte alcune osservazioni che di tale consonanza ridimensionano notevolmente la portata.

 

a) Appare innanzitutto evidente che si tratta di universali etnico-religiosi comuni alla stragrande maggioranza delle culture. Per rimanere nell’ambito storico-geografico d’Israele, sono notevoli le analogie con testi (tra l’altro più antichi) come il Codice di Hammurabi e il Libro dei morti egiziano. Con quest’ultimo, in particolare, a parte la formulazione imperativo-negativa del testo ebraico, si riscontrano corrispondenze pressoché letterali.

Del resto, è evidente che nessun popolo, nessuna comunità organizzata può sopravvivere senza norme elementari che proibiscano azioni volte contro la persona e la proprietà (cfr. “non uccidere” e “non rubare”), che impongano qualche forma di controllo del commercio sessuale e che sanzionino la menzogna e l’inganno (vedi “non commettere atti impuri” e “non dir falsa testimonianza”). Pure largamente diffusa la cura di assicurare un particolare rispetto all’anziano, e in particolare ai genitori (“onora il padre e la madre”).

 

Questo per quanto riguarda la tavola destra del decalogo, concernente i doveri verso il prossimo. Per quanto riguarda i doveri verso Dio, contenuti nell’altra tavola, il discorso da fare non è però diverso: il primo comandamento è proprio di qualunque religione monoteistica; il secondo - che impone rispetto per il nome sacro di Dio - ne è quasi un corollario; e il terzo, prescrivendo un culto, una pratica rituale o devozionale, nella sua ovvietà esprime la quintessenza di qualunque religione non atea. Nulla, quindi, nei primi otto comandamenti dell’attuale Decalogo cristiano, costituisce un legame veramente significativo e caratterizzante tra giudaismo e cristianesimo.

 

b) La struttura  cristiana del Decalogo differisce da quella originaria, poiché l’abolizione del divieto di rappresentare la divinità (che costituisce il secondo comandamento biblico) ha determinato uno slittamento di tutti gli articoli, alterando la numerazione: il nostro “settimo: non rubare”, ad esempio, era in origine l’ottavo della lista. Non occorre neppure dire che la soppressione del comandamento relativo alle immagini divine ha avuto un’enorme importanza nel differenziare il cristianesimo sia dall’ebraismo che dall’islam, concordi nell’osservarlo scrupolosamente.

La necessità di conservare il numero fatidico di dieci ha poi costretto la Chiesa a sdoppiare l’ultimo comandamento; sicché la donna, che prima si trovava, come oggetto di desiderio peccaminoso, in compagnia della casa, dell’asino e del bue, si è provvidenzialmente trovata ad avere un comandamento tutto per sé.

 

c) In alcuni casi la portata del comandamento è decisamente cambiata.

 

Il nostro quinto, che impone di non uccidere, di fatto proibiva solo l’uccisione dell’innocente; era infatti, nonché lecita, addirittura imposta l’uccisione non solo dell’assassino, ma anche di chi si rendeva colpevole di reati quali, ad esempio, la violazione del riposo sabbatico, l’adulterio, la pratica omosessuale.

In particolare, viene di regola imposta l’uccisione di chi volontariamente o involontariamente metta in pericolo l’ortodossia del popolo eletto: chi istiga ad adorare altri dèi, fosse anche il parente più stretto (cfr. Dt 13, 7 ss.), e naturalmente i popoli vinti sul suolo palestinese o ai suoi confini, popoli da sterminare (donne comprese, v. ad es. Nm 25) per scongiurare il contagio idolatrico. Oltre a ciò, non può venire sottratto alla morte chi è stato consacrato con un voto al Signore: vedi Lv 27, 29 e la vicenda della figlia di Jefte, vero e proprio caso di sacrificio umano.

 

Il settimo comandamento, corrispondente al nostro sesto, suonava “Non commettere adulterio”: chiaramente aveva lo scopo primario e pressoché esclusivo di salvaguardare i diritti del marito. L’ampliamento di prospettiva compiuto dalla Chiesa (“Non commettere atti impuri”, di qualunque genere) l’ha di fatto spostato dalla tavola destra del Decalogo alla sinistra, poiché non possono considerarsi azioni volte contro il prossimo, ad esempio, l’autoerotismo, i rapporti prematrimoniali e, in genere, ogni rapporto tra adulti consenzienti che non leda l’interesse di terzi. 

L’ottavo comandamento, “Non rubare”, non proteggeva dal furto i popoli stranieri, i cui beni, in caso di guerra, erano di regola annientati secondo la legge dell’herem, mentre le terre venivano ovviamente confiscate.

Da notare anche la formulazione del primo comandamento, rivelante che la fede originaria di Israele non era monoteistica, ma monolatrica: il fatto che il culto del popolo eletto vada riservato al solo Yahweh non esclude - anzi, implicitamente ammette - che altri popoli abbiano loro propri dèi.

 

Detto questo, va riconosciuto lo spirito cristiano del decimo comandamento (corrispondente, come si è visto, ai nostri nono e decimo), che considera peccaminoso il desiderio stesso di commettere il peccato: è una nota di interiorità che oggettivamente contrasta col formalismo dominante nella pratica religiosa giudaica. Tanto che ci sorprende il fatto che Gesù presenti il precetto come un compimento, un perfezionamento da lui apportato all’antica legge (cfr. Mt 5, 27-28: “Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore”).

 

Sempre nel campo dei precetti morali, va ricordato pure il famoso “Ama il prossimo tuo come te stesso”, che Gesù in Mt 19,19 riprende da Lv 19,18. Bisognerebbe però precisarne il senso chiarendo chi si deve considerare “prossimo”; senonché  Gesù, interrogato in proposito, svicola cavandosela con la parabola del Buon samaritano (l’esegesi ufficiale dice che “ribalta la domanda”!). Sembra comunque di poterne ricavare l’esortazione ad estendere il concetto oltre i confini del popolo d’Israele, a cui lo restringe la formulazione veterotestamentaria.

 

d) Accanto al Decalogo, e a suo completamento, figura nel Pentateuco una miriade di altre prescrizioni e disposizioni di vario genere, di cui oggi non soppravvive praticamente più nulla.

 

6)  Numerose affermazioni - sotto forma di norme legislative o di appelli dei profeti - dell’urgenza di giustizia sociale e di un atteggiamento generoso verso la vedova, l’orfano, lo straniero.

Inutile dire che anche in questo caso si tratta di ideali e raccomandazioni condivisibili dalla grande maggioranza degli uomini, di tutte le culture e religioni. Inoltre tutto è sempre visto in una prospettiva di retribuzione terrena; la prosperità viene considerata segno della benedizione di Dio. 

Comunque, in questo ambito è giusto dire che il Nuovo Testamento “compie e supera” l’Antico; qui non c’è stravolgimento, si può sfruttare il VT sfoggiando una quantità di disposizioni o esortazioni contenute nel Deuteronomio, nel Levitico, nei Proverbi, nei libri di molti profeti. Questi passi si possono quindi considerare ancora pienamente attuali.

 

7)  Alcune affermazioni tratte dai testi cosiddetti “deuterocanonici”, soprattutto dai libri dei Maccabei e dalla Sapienza. Si tratta di libri che non fanno parte della Bibbia ebraica, ma solo della sua antica traduzione greca detta “dei Settanta”; i Giudei non li hanno accolti perché opere tarde e scritte direttamente in greco (anche se di una si è ora rinvenuto l’originale ebraico, e di altre qualcuno ipotizza che vi fosse). I protestanti li hanno esclusi dal loro canone.

Quel che più conta, ad ogni modo, è il fatto che tali libri non vengono mai citati nel NT; e Gesù non li avrebbe mai potuti utilizzare parlando alle folle della Palestina, per la semplice ragione che non esisteva - o comunque non era conosciuta - una versione ebraica o aramaica.

 

A ciò non osta il fatto che la traduzione greca dei Settanta fosse allora molto diffusa nel mondo ellenistico e che sia stata usata dai redattori finali dei Vangeli. Se è normale infatti che, dovendo tradurre in greco passi biblici, ci si servisse di una versione autorevole già esistente, ciò non implica affatto che Gesù, posto che conoscesse il greco, potesse usarlo per parlare ai suoi interlocutori palestinesi, citando passi di testi di cui, come si è detto, non esisteva una versione conosciuta in ebraico o in aramaico.

È quindi singolare, al limite della stravaganza, che si considerino appartenenti al canone veterotestamentario opere che Gesù non conosceva, o che comunque ignorò completamente nella sua predicazione.

In particolare, la Sapienza è frutto di una cultura in gran parte estranea alla mentalità giudaica. La Chiesa l’ha furbescamente inserita nel canone perché vi sono alcune affermazioni che le possono servire; ma è arbitrario dire che fa parte dell’AT, se si pensa che ormai la stessa CEI, nella sua edizione del 2008, la data “tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C.”.  Secondo alcuni studiosi sarebbe stata scritta addirittura dopo il 30 d.C., ossia dopo la morte di Gesù!

 

8)  Una moltitudine di spunti, tratti anche dai libri storici, da cui ricavare metafore edificanti. Sin dai primordi del cristianesimo, e in particolare nel Medioevo, è rigogliosamente fiorita la tecnica dell’interpretazione allegorica, sicché la Bibbia si è trasformata in una sterminata palestra dove da venti secoli si esercita l’acume di esegeti, teologi e pastori impegnati a reperire nell’AT “figure”, ovvero “prefigurazioni”, più o meno pretestuosamente  sfruttabili in chiave  cristiana.

In alcuni casi abbiamo un esplicito riferimento ad opera di un evangelista: così è, ad esempio, per “Non gli sarà rotto osso” (Gv 19, 36), che accosta il Cristo morente sulla croce all’agnello pasquale ritualmente immolato (metafora poi ripresa nell’Apocalisse). Sempre nel NT (Gal 4, 21 ss.) abbiamo l’interpretazione paolina di Agar e Sara come figure, rispettivamente, della Vecchia e della Nuova Alleanza; mentre l’esegesi ha intessuto mirabili ricami sul parallelismo tra l’Arca dell’Alleanza e Maria, nonché sul tema della “figlia di Sion”.     

Tra i mille esempi possibili, ricordiamo ancora la liberazione dall’Egitto vista come metafora della liberazione dell’anima dalla schiavitù del peccato. Splendido l’impiego che ne fa Dante quando descrive l’arrivo al Purgatorio delle anime salmodianti In exitu Israel de Egypto (Pg 2, 46; cfr. Sal 113).

 

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Chiudiamo a questo punto l’elenco dei principali elementi veterotestamentari riutilizzabili in chiave cristiana. Anche qui ci siamo naturalmente limitati ad indicare aspetti di natura specificamente teologica, riguardanti cioè la dottrina, non la cultura.

Sotto profilo culturale, infatti, è superfluo dire che l’AT ha rappresentato nei secoli un enorme bagaglio di immagini poetiche, di spunti narrativi, di espressioni divenute proverbiali.

 

Per tutte le lingue, le letterature e le arti figurative dell’Occidente e del mondo slavo, nonché di quello greco, la Bibbia ha costituito, per usare una definizione di Blake resa famosa da Northrop Frye, “il grande codice”; e si tratta certo di un fattore di importanza non inferiore a quella dell’eredità greco-romana.

Tra i soggetti privilegiati basterebbe ricordare, tanto per fare qualche esempio, il giardino dell’Eden, il Diluvio, la torre di Babele, il sacrificio di Isacco, il passaggio del Mar Rosso, le mura di Gerico che crollano al sonar delle trombe, le gesta di Sansone, Davide e Golia, la regina di Saba, Giuditta e Oloferne, Giona inghiottito dalla balena ...

Ma tutto questo, va ribadito, è cultura. Con la teologia, e più in generale con la religione, ha ben poco a che vedere.

 

Inutile dire che anche questo elenco, al pari di quello delle differenze qualificanti tra le due religioni, potrebbe venire allungato. Ci pare però che contenga l’essenziale di ciò che dell’AT è stato utilizzato ed è realmente ancora fruibile in prospettiva cristiana.

È facile vedere che esso non è nemmeno lontanamente paragonabile all’altro; e ciò soprattutto sotto il profilo qualitativo, ossia per il rilievo teologico ed ecclesiale delle voci che lo compongono. 

    

 

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